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Radici in crescita, sequenza giornaliera degli accadimenti, di Ivan D’Agostini- 18 e 19 aprile

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Diciottoaprile

Eventi, accadimenti, attese che ora sì, sì sì è manifestato, oggi, stamani, dopo aver atteso, e non ho mai aggiunto l’invano poiché ero certo, sicuro della riuscita dell’evento anche quando ho scambiato, ho confuso la realtà dall’immaginazione o più semplicemente, convinto com’ero della condizione in cui si era collocata la situazione e cioè che effettivamente, in fondo dopo tutto questo tempo era logico che quelle che avevo visto spuntare non potevano essere altro che le mie tenere e verdi pianticelle, i miei alberelli in nuce, e invece quante volte ho dovuto cedere il passo alla realtà e convincermi che tutto ciò che avevo visto e fantasticato altro non era che il frutto della mia convinzione e che questa convinzione, che io però continuo anche a chiamarla fiducia nel futuro, che altrimenti non so definire, mi ha condotto sino ad oggi.

 

Da quel lontano giorno che avete letto all’inizio pagina di questo diario, racconto (alla mia maniera) di come la vita può piegare a destra e a sinistra ma che, con vera convinzione giunge sino alla strada e la percorre, tutta non so’, ma la percorre.

Ora dunque, all’improvviso, senza che ve ne abbia dato riscontro, senza che vi abbia detto bene, specificato di quella mia azione, certo il caffè del Remino (una cosa che non serve capire ora …), certo tutta la ritualità della preparazione che ho diligentemente seguito cinque giorni fa, che ho ieri, senza veramente darvene notizia, apposta, aggiunto un filo, lungo, verde, di una varietà erbacea cresciuta spontaneamente, anche se spontaneamente in verità non cresce nulla, poiché c’è sempre un azione che sposta dall’altro lato della strada un briciolo di vita e l’asperge, la colloca, la deposita, laddove il fato vuole, cosicché io, l’altro giorno per l’appunto, ho deciso che quella briciola, stimolante, filiforme e decisa fibra, svettante nel cielo della  mia stanza, pinnacolare lama, sarebbe potuta diventare catalizzatore di quell’attività, celata e coperta da strati, intervallati nel tempo e nella consistenza, di terreno fertile, scelto con cura in questi giorni, nutrito quotidianamente, che ancora non si manifestava.

Allora senza dir niente a nessuno, senza darvene riscontro, sulla quotidiana assenza nel, dal, sul “vassoio”, della concretezza delle mie speranze, dei miei desideri, delle mie passioni, dei sogni, degli accidenti non so più come altro chiamarle e rendervele reali, l’ho presa, delicatamente come si prende un neonato, un bimbo appena riemerso dal grembo materno (non emerso poiché è emerso dall’amore novemesi prima), l’ho afferrata, strappata bene dalla sede, vicino al gambo di quella grassoccia e paffuta pianta grassa (una spinosa leggera) e l’ho appoggiata, inserita, adagiata e coperta di quello strato che ho tanto nutrito in questi mesi, l’ho collocata accanto a quell’erbacea cresciuta quasi da subito, le ho dato compagnia; lì sul bordo esterno, quello opposto alla finestra di modo che possa guardare bene il sole della mattina, di modo che da quella posizione ammiri, osservi e scruti tutta la futura piantagione che alla fine crescerà, pure quella a dimora da poco e oggi, finalmente, decisamente, so di certo stimolati tutti da quella presenza che forse ha trasportato da quell‘altro vaso (questo), brandelli di organicità, hanno dato il via alla sinfonia.

Quest’antologia si è manifestata, in piccolo, foglie racchiuse, schiacciate all’interno di un disco che sparirà, esploderà, uscirà lo stelo, spingerà il capo ancora chiuso verso l’alto, si nutrirà per poco da quel seme che l’ha generato, che avvizzirà, che diventerà scarpa piede sostegno, un reticolo immenso, lunghissimo, si snoderà per tutto il “vassoio”, giungendo in luoghi che neppure io oso immaginare, s’intreccerà con altri, dialogherà e forse anche cannibalizzerà altre sue sorelle o fratelli, giusto o sbagliato: cercherà la sua continuità.

La ritualità della vita, il gesto solenne di aprire gli occhi ogni mattina che il Santo creatore fa giungere qua, giù, su, di lato, di fianco, a destra o a sinistra, poco importa. Siamo qui tutti a dannarci l’anima, anche se a ben vedere l’anima, puro significato agnostico forse di un concetto di vita che prescinde dalle confessioni, non la vediamo, non scende dal letto come noi, non piega la schiena sul solco, l’arido letto che con continuità ogni volta tentiamo di strappare all’arsura del sole che inebria l’atmosfera.

La pioggia che prima o poi cesserà, che come diceva Mark Twain primaopoismetteanchedipiovere, la pioggia che allaga e nutre; che, come limo ancestrale trasportato eroso dalle sabbie prolifiche, si adagia sull’orto.

 

Il mio orto, il mio coltivo il mio “vassoio” che ora ha preso l’abbrivio e che ……..

 

Diciannoveaprile

La fantasia, fantasticare, inventare, elaborare nuove pagine, immaginare fantasiosi paesaggi ove collocarsi; quello che da sempre l’uomo cognitivo ha elaborato, cimentandosi con virtuosità, nell’equilibrio tra l’onirico pensiero e la concreta quotidianità.

Il bisogno di estraniarsi, fosse anche solo per staccarsi dal concreto e immaginare il futuro, acquisendo proprio da quella filosofia distaccata e confacente, in un ruolo che non ha la necessità delle logiche di gravità, i suggerimenti per la realizzazione dell’invenzione. Da sempre quindi abbiamo sognato, a volte anche a occhi aperti, ci siamo crogiolati poco prima di affrontare il giorno nello strascico della visione notturna e così, carichi e nutriti di sogni, ci dirigiamo verso l’orizzonte.

 

Celestina, l’ho chiamata Celestina, quella piccola mosca che da qualche giorno mi fa compagnia in questi mesi di assoluta solitudine.

 

In questa stanza, dove mi nutro di tanto, dove le ore sono intervallate da rari squilli telefonici e dalle mie pause riflessive, da ieri, o meglio è qualche giorno che mi gironzola attorno, questo elicottero e aereo allo stesso tempo, razzo in miniatura, capace di spiccare il volo in una frazione di secondo; a volte si posa accanto a me, tra i barattoli delle mie mille matite, tra le stilografiche che reclamano, invano per ora, inchiostro, tra i fusti secchi delle biro, penne a sfera allineate, sparse, colorate, impossibili tinte: gialli, verdini, rosini persino bianche; ora si posa sul cappello del pinocchio che veste l’apice di quella matita rossa, comprata nel millenovecentonovantacinque dalla Manuela, là in fondo alla via che ora però non c’è più; sorvola le ali della testa di peluche dell’alce, fa mille piroette tra quel barattolo, si infila tra i manici delle mie forbici, posate a punta in giù nel barattolo alto di tolla lucida.

Chissà cosa penserà di questa mia rassegna di barattoli, acquistati a volte non solo per il loro contenuto, salse, funghetti, carciofini, olive spagnole (e magari quello lì è quello che ho comprato in spagna nel millenocentonovantadue col Fausto e il Vittorio all’epoca dell’Expo di Siviglia), i concentrati di pomodori della Mutti, quasi tutti belli e smaltati, perché la carta si abrasa scompare dalla superficie, questa distesa dove le cose, inserite appoggiate, infilate, persino accatastate, stupiscono anche me, “ma quei pennelli dove li ho comprati?” e ancora “ah sì il compasso cinese nella cartina originale….”, sì proprio quello che mi ha regalato quella stronza e anche un po’ puttana della … , ma sì quella mia cazzona amica (forse) architetto, incapace di mettere assieme una vite ma geniale nello scomporre le dimensioni (un peccato la nostra asintonia!).

 

Insomma Celestina mi gira accanto e mi fa compagnia e ogni volta che si attarda su qualcosa è come se volesse suggerirmi una riflessione.

 

L’ho vista, ieri sera tardi, saranno state le ottoemezza, che stava su quel filo nuovo verde del “vassoio”, lo stelo quasi piegato sotto il suo peso, Lei che sforbiciava con le sue zampette anteriori, che roteava, che si fermava; i suoi caleidoscopici occhi, telecamere, antenne che dir si voglia, che scruta con vivo interesse ciò che sta crescendo lì dentro il “vassoio”. La vedevo come si muoveva sul bordo, saltando oplà, la parte screpolata, rotta, quasi che volesse dirmi: “Vedi, vedi che ho imparato com’è fatto e che te lo giro solo sulla cortina giusta, l’autostrada, e che quando manca una parte, io che sono capace di volare, posso conservare l’orizzontalità del percorso, mantenendo la stessa quota, la linea di livello di questo paesaggio che tu stai riproponendo, come metafora a te necessaria, nutrimento invece per me!”

Ah ma che sfacciata dico io, ma che impertinente.

E intanto già una foglia si sta aprendo, cerca di spiegare quelle ali che diventeranno pannelli fotovoltaici naturali. Forse, davvero, ora il “vassoio” si forma.

 

 

Dai Celestina, non mi tormentare che devo scappare. Ciao vado al Salone del Mobile a scoprire cosa hanno copiato e inventato.

 

Sono faggi e non aceri, perdiana. Combino a volte, spesso molte volte nella smania di costruire, di assemblare, in questa densità di azioni, che questa mia affatto silenziosa solitudine del fare, che son solito formare, capita che riesca a confondere, anche da subito alcuni frammenti di realtà, assemblo, forse fondo nella fretta conclusioni senza le logiche costruttive della semplice realtà.

 

Ma, subito dopo, poi, un passo, un segno, una persona che passa di sfuggita, magari proprio lì sulle strisce pedonali, mentre guardo la macchina che sopraggiunge e che si ferma a un palmo da noi, mi sorprendo nel guardare il rosso delle foglie del faggio (uno di quei pochi rimasti in città e non sacrificati sotto l’impietosa scure dell’indifferenza), il rosso dell’intonaco della muratura della stazione e, sarà un caso, pure il rosso del bordo del “vassoio”, che correggo, aggiusto, modifico e reindirizzo il tiro.

 

Riprendo così la giusta via del diario, del racconto.

 

Rifletto, penso, fuori, appena fuori oltre il vetro del nastro che taglia il vagone, piccoli occhielli verso un mondo in velocità, c’è un altro mondo, un altro tempo, osservi e, è già lontano, ti volti per acciuffare quelle foto sfocate ma, appena ti distrai un nuovo quadro si fa, non puoi neppure dire avanti perché tra meno di un secondo è già nel passato.

 

Questo treno corre veloce, di più di quello di trentannifà che neppure ci pensavo, allora, di come sarebbe diventata questa vita.

 

Vorrei poter non dire (stasera) “ecco lo sapevo”, mi sarebbe piaciuto tra poco, questa sera, poter scansare quelle idiote riflessioni sulla casualità e espressione delle idee che come batteri, si muovono nell’aria per innescare improbabili processi progettuali. Che le idee in fondo sono di tutti, ma uno solo le anticipa.

 

Di ritorno l’unica cosa che poi in fondo è cambiata è l’interno del “vassoio” che come probabilmente domani annoterò, si sarà circondato da nuovi pinnacoli.

 

E’ un noir, un giallo senza crimine o un abbecedario senza lettere? Ogni giorno un portento di alba.

 

Notti e giorni senza sosta, di tutti e di tutto.

 

Celestina mi guardi curiosa, appoggiata su quel pilastro di legno, residuo forgiato da uno stecchino, miniatura per me, ciclopico ritto per te. Eppure, eppure sfuggi, che vuoi dirmi Celestina …?

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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