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Nella produzione di tessuto denim (blue-jeans), Candiani spa di Robecchetto è leader a livello mondiale

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Angelo Paratico vive a Honk Kong da trent’anni, ma non ha mai dimenticato il suo paese natale, con il quale mantiene un rapporto continuo. Cartoline d’epoca appaiono saltuariamente in ‘Sei di Turbigo’ e nei suoi libri e articoli si ritrova sempre ‘nuances’ che rimandano alla riva sinistra del Ticino. L’articolo che segue (presente sul blog di Messina – Corriere della Sera) è la storia di un ‘vestimento’ che ha attraversato i secoli e la cui produzione avviene proprio qui nei nostri paesi (Robecchetto, Malvaglio) dando lavoro a centinaia di famiglie (600 dipendenti), una risorsa molto importante che è riuscita ad attraversare la crisi senza lasciare a casa nessuno. Anche questo è un successo!

FOTO Interno di uno degli stabilimenti dove viene prodotto, partendo dal cotone, il tessuto ‘denim’

Furono un’icona della libertà negli anni sessanta e di lotta all’oppressione politica e religiosa negli anni settanta e ottanta, oggi restano un simbolo potentissimo, una sorta di totem. Molto si parla ma poco si conosce della storia dell’indumento più comune della nostra epoca, i blue jeans, e dei tre ingredienti che li compongono: cotone, indaco e confezione. Nessun altro capo d’abbigliamento in tutta la storia dell’umanità si è mai dimostrato così versatile e resistente ai cambiamenti della moda e del costume. Versatile, perché possono essere sia abito da lavoro che indumento di lusso, eppure sempre capaci di donare emozioni a chi li indossa ed è già in là con gli anni, facendoci tornare indietro nel tempo, ai bei tempi spensierati della nostra giovinezza.
La loro produzione rispetta l’ambiente, perché il colore indaco viene usato anche per preparare dolci e confetti; i tuareg, gli uomini blu del deserto, hanno questo nome per la discolorazione delle loro vesti, tinte con indaco e lo stesso vale per i mongoli. Dal 1901 non viene più estratto dalla pianta “indigofera tinctoria” ma prodotto per sintesi chimica, dalla Bayer.
La parola “indikon” in greco significa tingere, e l’indaco è una materia colorante capace di fornire un colore blu zaffiro, che non ingiallisce con il passare del tempo. Inoltre, un paio di blue jeans di valore non vanno mai stirati, per preservare la loro ruvidezza e la tridimensionalità delle loro pieghe, che diventano un simbolo d’avventura e di antiche conquiste.
La produzione di tessuto denim negli Stati Uniti è quasi del tutto scomparsa, ma vi è rinato il confezionamento dei capi e il loro lavaggio, proprio nella zona di Los Angeles, luogo d’origine della loro prima evoluzione: da capo economico per operai a capo indossato dalle dive di Hollywood, per cavalcare e per curare i fiori del giardino.

I blue jeans vengono prodotti con cotone, anche se recentemente s’inseriscono altre fibre, come gli elastomeri, il poliestere e il nylon, per mutarne le caratteristiche di vestibilità.
Il cotone è una fibra tessile di origine centro-asiatica, giunta in Europa alla fine del medioevo, anche se già tre millenni prima di Cristo veniva coltivato nella valle dell’Indo. Certi articoli di cotone furono rinvenuti in alcune tombe dei faraoni egiziani. Ne accennò Erodoto, descrivendolo come lana che cresce sugli alberi e per questo motivo in alcune vecchie illustrazioni, come in quelle di Mandeville, una delle letture preferite di Leonardo Da Vinci, vien descritto con degli agnelli che pendono dai rami degli alberi.
E mentre la ruota per filare fu inventata in Cina, i mongoli crearono il primo ufficio deputato al controllo e alla esportazione del cotone sulla Via della Seta.
I primi tessuti di cotone giunsero in Europa via Genova e Venezia. Si chiamavano Bacasini – ecco, ora sappiamo l’origine del cognome del magistrato che stava sotto a Berlusconi e pure Mussolini è un cognome di derivazione tessile – e l’origine orientale è provata dal fatto che i primi tessuti prodotti nell’Italia settentrionale mantenevano disegni simili a quelli siriani e palestinesi.

L’indaco, estratto dalla pianta indigofera e il guado, appartenete alla stessa famiglia vegetale, non sono solubili in acqua ma vanno prima ridotti chimicamente: un processo complesso che pure veniva attuato già nella preistoria. Esistono tracce di questo uso in una tavoletta cuneiforme del VII secolo a. C. dove si descrive il processo di riduzione e poi l’ossigenazione. Una delle “spezie” importate dai portoghesi in Europa a partire dal 1512 fu l’indaco, che dava una tinta magnifica e costava poco rispetto al guado, molto coltivato in Francia e Germania. Questo provocò la perdita del posto di lavoro da parte di migliaia di lavoratori del guado, che si ribellarono con violenza e costrinsero i propri governanti a proibire l’importazione di quello portoghese, che a quel tempo arrivava in pani cristallizzati, inducendo tutti a pensare che fosse un minerale.
Nella storia antica il colore più comune fu sempre il rosso. Il termine “coloratus” in latino è sinonimo di rosso, mentre il blu veniva in prevalenza usato da celti e germani, anche per i loro tatuaggi.
Il blu cominciò a diventare comune in Italia e Francia nel XIV secolo, quando fu adottato dai pittori per il manto della vergine Maria. In seguito divenne di moda fra i giovani romantici europei, dopo che il povero Werther, immortalato da Goethe nel suo romanzo, si sparò vestendo una giacchetta di quel colore.

Tutti sanno che il nome blue jeans deriva da una deformazione della voce Genova, letta in inglese ed è provato che il signor Lob Strauss (poi diventato Levi Strauss), importò centinaia di metri di un tessuto italiano da Genova, con costruzione “canvas” e di color marrone, che gli americani chiamavano “cotton duck”. Nel 1853 Levi Strauss stava a San Francisco per via dell’oro trovato sulla Sierra Nevada ma non sappiamo con esattezza quanto tessuto italiano egli aveva importato, perché tutto l’archivio della Levi Strauss, a San Francisco, andò distrutto nel 1906 nel terremoto e nel successivo incendio che distrusse la città. Voleva produrre delle tende per i minatori ma tutto cambiò quando qualcuno gli chiese dei pantaloni fatti con quel tessuto resistente. Era un ebreo tedesco, nato nel 1829 e che sbarcò a New York nel 1847 con la sorella e la madre appresso, adattandosi a vendere come ambulante e portandosi in spalla un sacco pesante 40 chili: quella era una occupazione comune agli ebrei, che venivano accolti bene nelle cittadine di provincia americane e additati come “la gente della Bibbia”.

Il nome denim indica il tessuto e non il capo finito. I francesi raccontano che fu inventato da loro, a Nîmes. Ma in realtà noi italiani possediamo alcuni indumenti antichi – sempre con una costruzione a “canvas” e non il twill 3/1 comune oggi per i blue jeans – indossati dai marinai genovesi.
Al Museo del Risorgimento di Roma si trovano un paio di vecchi jeans indossati da Giuseppe Garibaldi, con una toppa su di un ginocchio. L’Eroe dei due Mondi li ricevette dal padre e ormai vecchio a Caprera li passò a un giardiniere, dicendogli di gettarli via. Per fortuna l’uomo intuì il loro valore e furono preservati. Non hanno una tinta blu brillante, ma cerulea perché a quel tempo s’utilizzavano gli estratti di guado, che forniva un pigmento più chiaro.

Osservando un paio di blue jeans non possiamo immaginare la laboriosità richiesta per produrli, attraverso processi tecnologici che si sono evoluti al fine di poter imitare, a un costo contenuto, dei processi vecchi di millenni. Infatti, a differenza di tutti gli altri tessuti in circolazione, il denim vien prodotto tingendo prima gli orditi con indaco in ambiente ridotto – l’uomo preistorico seguiva un simile sistema – e poi, dopo l’ossidazione all’aria si ha il fissaggio delle grosse molecole blu sulla superfice del cotone. Poi il subbio con gli orditi vien posto sul telaio, dove viene inserita una trama bianca. Per andare ancora più vicini alle vecchie tecniche produttive si son tolti dai musei i vecchi telai a navetta, rammodernati e rimessi al lavoro.

La produzione di denim a livello mondiale è enorme, si parla di miliardi di metri ogni anno, con l’India, la Cina, la Turchia e il Pakistan ai primi posti per quantità. Se invece parliamo di qualità, due sole sono le nazioni che emergono: il Giappone e l’Italia.
Due Paesi che competono seguendo due diverse scuole di pensiero. Il Giappone cerca di produrre denim il più possibile simile a quello usato dai minatori alla fine dell’ottocento, ai quali Levi Strauss vendeva i suoi prodotti, così come i capi successivamente vestiti dai cow-boy, i Lee e i Wrangler, di non minor importanza per la storia di questo indumento.
L’Italia invece si distingue per la visione artistica del passato e per volerlo farlo rinascere, un po’ come abbiamo fatto durante il Rinascimento, reinterpretando l’antichità greca e romana.
La ditta italiana più rappresentativa da tale punto di vista è certamente la Candiani Spa di Robecchetto, un paese di tremila abitanti, a trenta chilometri da Milano, una fabbrica leader a livello mondiale nel proprio settore, tant’è che alcuni marchi americani mettono etichette per specificare che il tessuto è Made in Robecchetto, un po’ come farebbe un produttore di auto il quale indica che il motore è un Ferrari.

Una particolarità dei blue jeans moderni, che avrebbe fatto scuotere il capo ai nostri padri, è il lavaggio più o meno distruttivo, gli strappi, i trattamenti manuali e ad umido. Sbagliare il tipo di lavaggio per la prossima stagione significa un disastro nelle vendite, mentre centrarlo vuol dire vendere tutto. Anche qui noi italiani dettiamo legge nel mondo, sia per previsioni di moda che per tecniche di lavaggio, anche se va detto che la moda dei blue jeans antichi e originali è una delle tipiche manie giapponesi. Infatti, a partire dagli anni 80 tutti i vecchi blue jeans americani sono finiti in Giappone, dove vengono venduti a prezzi incredibili, e parliamo di centinaia di container colmi di questi capi.

La Levi Strauss fu la prima ditta al mondo a promettere un rimpiazzo gratuito in caso di rottura dovuta a difetti di fabbrica e a creare l’idea del marchio come sinonimo di qualità. Nel 1890 adottarono la cucitura a gabbiano per la tasca posteriore, con il filo arancio, questo è il primo brevetto per un prodotto tessile della storia, anche se la registrazione vera e propria la fecero solo nel 1942!
La Levi Strauss ha forse dormito sugli allori negli ultimi 40 anni e questo ha permesso a un gran numero di nuovi marchi di emergere. La loro attitudine al conservativismo è leggendaria ma una storiella serve a ben illustrarla.
Nel 1879 cominciarono a porre dei rivetti di rame sulle cuciture, e adottarono un doppio filo arancione per imitare il colore di quel metallo, questo accadde grazie a un’intuizione di Jacob Devis, che rafforzò grandemente la resistenza allo strappo dei pantaloni. Funzionavano quei rivetti, ma volendo strafare, ne misero anche sulle tasche posteriori, che però rovinavano le selle e le sedie, e pure una, udite udite, in fondo alla patta, sotto all’ultimo bottone. Cominciarono a ricevere lettere di protesta da parte di cowboy, perché quando si mettevano davanti a un falò, durante le loro gelide notti all’addiaccio, tale rivetto metallico tendeva a surriscaldarsi, provocando un’ustione, o un forte fastidio, allo scroto…immaginiamo i latrati notturni, simili a quelli del coyote.
Dopo varie riunioni e ripensamenti decisero di toglierli, ma solo nel 1940!

Angelo Paratico

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